Linux, Casa

Aiutato dal fatto di non essere un gamer, da ormai una decina d’anni la macchina con cui lavoro, adempio alle amenità burocratiche, uso per intrattenimento, è equipaggiata con Linux. Ho iniziato a provarci a inizio anni 2000, con una Suse, ma, non per colpa della distribuzione, era troppo presto. Ci ho riprovato qualche anno dopo con… Boh, Mandrake? Forse. In ogni caso, stesso risultato, e in quel caso la sensazione di poggiare i piedi su un panetto di burro, caldo, l’ho avuta.

Poi Ubuntu e ora Debian. Casa.

Per un informatico, Linux è tornare a casa. E con tutti i difetti che può avere una casa, la preferisci sempre rispetto all’albergo, anche il più dorato.

Non è tanto il fatto che Win e OSX siano più elettrodomestici e più emotimatici che me li rende altro rispetto a casa; sono i paletti che cercano di metterti… un po’ dovunque nel tentativo di limitarti i movimenti. No, nella cartella .app non ci andare che ti fai male. No, nella registry non ci andare che ti sporchi i vestiti. Usa il Finder, non avrai altro filesystem-browser all’infuori di questo luna-park per foche. Trova il Control-Panel nella nuova versione se ci riesci. E cerca di capire con quale logica a ogni edizione spostiamo i pezzi. Eccheppalle… Cioè, la macchina l’ho pagata io, eh?

Non ne faccio una questione politica: i ragazzi della community sono fantastici, ma temo che senza i soldi delle fondazioni, dietro le quali, mi sbaglierò, intravedo IBM e Oracle, si sarebbe andati ben poco lontano. E’ che Linux è logico. Consequenziale. Non ci sono numeri mistici, costanti di Planck e atti di fede da tirare in ballo. Sfido qualsiasi informatico del segno della Vergine a non esserne sedotto.

Fino a un po’ di tempo fa cercavo di convincere i miei amici a passare a Linux. Dicevo loro: Linux è un camion, Windows una Panda che costa come una Golf e Mac una Polo che costa come una Mercedes. Poi, con l’aiuto del SERT, sono riuscito a smettere. Ora sto bene.